Robert Wyatt. I conflitti della Musica. Parte Prima

Incontro con Robert Wyatt
Il trenino che ci sta portando a Twickenham-sobborgo mellifluo di una Londra ancora scottata dalle bruciature New Wave – non è proprio una “morbida macchina” oleata e scorrevole. Traballa, singulta, ondeggia e ci mostra dai suoi finestrini opachi le ciminiere delle fabbriche grigiastre dell’Inghilterra in pieno ciclone Tatcher. Non ci sono campagne nè brume rosate che ci possano ricordare Canterbury. Canterbury è lontana, distante almeno un anno luce: non ha più gioie da regalare nè nuove follie da reinventare.
Fa parte ormai del flusso dei ricordi. Conserva gelosamente un suo sapore caratteristico e indefinibile, come un buon vino d’annata. E come un buon vino, questa bottiglia di vecchie storie va stappata almeno un’ora prima di esser bevuta. Ed è proprio quello che stiamo facendo ormai da un pezzo, ancora prima di salire sul treno: questo incontro con Robert Wyatt ce lo stiamo pregustando ben bene. Abbiamo già tolto il tappo dei ricordi e ci stiamo lasciando dondolare fuori dal tempo, in uno scompartimento vuoto, diretti a casa di uno di quei musicisti di cui il rock si dimentica facilmente e di cui (noi lo sappiamo bene) non avrebbe potuto fare a meno.
Chiedergli dei Soft Machine? Di Canterbury? Dei tempi della Virgin? Ancora non lo sappiamo bene. Sappiamo di sicuro che sarebbe facile cedere alle nostalgie, alle mitologie, alle “memories” andate. Cercheremo di non abusare di questo fascino del passato e tenteremo di puntare sul presente. Questo presente che sembra vedere un Robert Wyatt risorto sotto il patrocinio della Rough Trade, dopo anni -molti anni- passati in semi-eremitaggio.
Quando arriviamo a Twickenham siamo i soli a scendere e il treno riparte subito. La stazione è pressochè deserta. E’ una situazione quasi hitchockiana che viene appesantita col passare dei minuti, quando, dopo aver chiesto a due o tre persone la strada, ci accorgiamo di non riuscire a trovare l’indirizzo. Finalmente, dopo aver costeggiato a lungo il Tamigi, riusciamo a scovarla: è una stradina silenziosa e assente, fatta di alberi e di villette non molto dissimili fra di loro. Anche la ricerca del numero è faticosa: tutto appare confuso, abbandonato, pur se non decadente.
La casa di Robert Wyatt, appare quasi per caso: bianca, pulita, col suo giardinetto curato pieno di fiori. Suoniamo. L’uomo che ci viene ad aprire – cordiale e caloroso come solo pochi inglesi lo sanno essere – è proprio il Robert Wyatt che ci aspettavamo: mobile, vivace, ospitale, pur nella sedia a rotelle sulla quale è costretto ormai da circa otto anni. I suoi occhi, più che il suo aspetto, però tradiscono dietro la loro viva intelligenza un velo di tristezza che il tempo non ha saputo cancellare del tutto.
Perdere l’uso delle gambe è già drammatico di per sè, ma per un batterista dev’essere decisamente più tragico. Può cancellare ogni aspirazione a continuare a vivere. Per fortuna, nel caso di Robert Wyatt, non è andata cosi. Anzi, il materiale che egli ha inciso dopo l’incidente, pur se scarso come quantità, possiede una forza e una densità espressiva veramente invidiabili. Tutto ciò ci lascia nello stesso tempo intimoriti e un pò imbarazzati.
Wyatt e l’Italia
Mentre Robert va in cucina a preparare del caffè alla turca, vorremmo quasi nascondere il registratore e la macchina fotografica. La tentazione di fare questo incontro un semplice pomeriggio passato a discutere amabilmente, privandolo cosi di connotati “professionali”, è forte. Ma il timore di apparire come degli intrusi svanisce presto: al suo ritorno, con un vassoio pieno di tazze fumanti e di biscotti, Wyatt ci chiede dell’Italia. Ci dice che gli piacerebbe venirvi a trascorrere un pò di tempo, forse a viverci. Sul piatto del giradischi sta andando il disco del quartetto di Marcello Melis col gruppo sardo Robanu(“The new village on the left”): questo accostamento fra musica popolare italiana e jazz sembra interessarlo moltissimo.
L’arrivo della moglie, Elfie -una donna tenera e affascinante, dai gesti misurati e dallo sguardo luminoso- ci distoglie dall’oggetto della conversazione (il concerto di piazza Navona, con i Gong e gli Henry Cow, che è stata anche la sua ultima apparizione dal vivo). Elfie ci parla della casa e di Twickenham: dal suo modo di esprimersi cogliamo una certa insofferenza verso i vicini e gli abitanti della zona. I due vivono in una specie di isolamento non voluto e mal digerito: gli amici li hanno tutti a Londra e i rapporti con la gente del posto sono puramente formali. La loro “diversità” di artisti non trova spazi nel freddo muro dell’incomunicabilità altrui. Ed è una condizione questa che pesa ancor di più sulla loro già difficile condizione esistenziale.
Non possiamo far altro che invitarli qui da noi, in Italia…
Robert sorride, compiaciuto della nostra cordialità, e ci invita amabilmente ad iniziare l’intervista…
Enzo Capua e Maurizio Malabruzzi
Recensione estratta da “PRISMA” – Mensile di Riflessi Sonori – Numero 2 – Marzo 1981
PRISMA e’ una rivista mensile di Musica edita da Carlo Marignoli nel triennio ’81-’83 dove hanno partecipato alla realizzazione importanti firme della critica musicale.