Sempre avanti a fronte alta Joe Jackson

Joe Jackson.
Francamente non riusciamo ancora a capire perchè qualcuno in Italia affiancava il nome di Joe Jackson a quello di Elvis Costello. Il parallelo tra i due è simile a quello tra Gino Cervi e Ronald Reagan, tanto per citare una coppia a caso.
Eppure quando Look Sharp cominciava a scalare le classifiche inglesi ed americane non si trovò nulla di meglio che paragonarlo all’occhialuto ed antipatico Costello. Forse perchè ancora non si era in grado di distinguere nella musica di Joe Jackson quei caratteri che ne fanno un personaggio particolare nella scena rock inglese, ed un musicista da ascoltare.
Jackson non è proprio quel che si suol definire un bel ragazzo, ma forse ha quel phisique du ròle che a molti altri manca, con le sue gambe un pò troppo lunghe, la fronte un pò troppo alta; ma a vederlo sul palco l’effetto è tutto un altro. Si capisce subito che si ha a che fare con un sottoproletario inglese che ha scoperto senza ombra di dubbio come funziona il rock’n’roll e fa quadrare i suoi conti.
Look Sharp è il suo primo album, un disco fatto apposta per essere consumato dal giradischi, con i suoi motivetti accattivanti e insistenti, con i suoi tempi reggae style, spezzati e convulsi. I’m a man è un disco al seguito, secondo piatto che preannuncia il dolce che non può mancare e Beat Crazy ha svolto abilmente questo ruolo.
“Beat Crazy”.
Quelli che son fissati con la musica “seria” han subito sentenziato che Joe Jackson fa solo delle canzonette astute, condite con le spezie del momento e servite calde. Beat Crazy, a nostro modesto avviso, porta il discorso su ben altri piani, cerca, come recitano le note di copertina dell’album, disperatamente di dare un senso al rock’n’roll, tuffandosi nella musica più calda delle minoranze oppresse inglesi, il reggae. L’album suona nuovo sin dal primo ascolto, è difficile entrare in sintonia con le musiche del disco, bisogna farci l’abitudine, scoprire le novità nascoste, scavare nei brani, girare attorno agli involucri e trovare un rock che in qualche modo si è slegato dai suoi canoni obbligati.
Innanzitutto manca la chitarra ritmica, o meglio la chitarra non viene usata con scopi preminentemente ritmici, ma serve a creare linee melodiche autonome.
“Il suono del gruppo, della Joe Jackson Band, non era in fin dei conti diverso da quello di tanti altri gruppi” ci ha detto Jackson durante i suoi recenti concerti italiani, “e allora ho pensato che ci dovesse essere un modo per uscire dai canoni del rock’n’roll senza allontanarsene. E l’idea mi è venuta dal reggae, eliminando la chitarra ritmica e basando tutto su frasi corpose del basso e della batteria. Con il basso e la batteria avanti, la chitarra può fare cose diverse e la musica stessa è strutturata in altra maniera”.
Differenze con i Talking Heads.
Cosi Beat Crazy svolge i fili di una musica che resta ancorata più che saldamente ai territori del rock, che al contrario di quella più “sperimentale” non cerca commistioni con l’elettronica ma che in sintonia con l’ala più avanzata gioca la carta del ritmo e dell’africa come possibilità di salvezza per il rock’n’roll. Lungi da noi l’intenzione di far paralleli con i Talking Heads, che troppa è la distanza tra le musiche dei due gruppi, ma ci preme di far notare che lo spessore della musica di Joe Jackson è tutt’altro che lieve e fragile, anzi è armato di un’intelligenza sottile ed ironica.
Lo testimoniano anche i testi sia degli album precedenti che dell’ultimo disco, sempre rivolti con attenzione ai fenomeni sociali, alle mode, alla politica spicciola e quotidiana, al rimbambimento televisivo e ai Sunday Papers che affollano la stampa d’Inghilterra.
Con Beat Crazy Joe jackson si allarga ancora su questo terreno, diventa sempre più preciso e puntuale, fulmina persino i suoi compagni di viaggio, i kids inglesi che si barcamenano tra mode e bande: “In Inghilterra la moda e la musica camminano sempre di pari passo, la gente ascolta solo i gruppi di un certo tipo e non ammette che questo sia considerato un semplice fatto di moda”, ha detto Joe Jackson al Melody Maker, “anzi parlano in maniera assolutamente sproporzionata di stile di vita o di sotto cultura. Il messaggio del disco è quello di avere un attitudine più aperta”.
Presentazione dei membri del gruppo.
Mode o non mode, Joe Jackson è diventata una delle voci più autorevoli della nuova Inghilterra. Con il suo stile duro e veloce, con le sue ballate, accompagnato da uno dei gruppi più precisi e puntuali della new wave inglese, formato da Gary Sanford, un chitarrista di belle speranze che pare essere poco preoccupato dal suo cambiamento di ruolo, anzi ci appare quasi più a suo agio che negli album precedenti; Graham Maby, un bassista che forse ha ben imparato la lezione di John Entwistle e che ha fatto del suo strumento l’asse portante del suono del gruppo, con uno stile personalissimo e intelligente.
Dave Hougthon, batterista con gli occhiali, che durante i concerti non si vede per nulla, totalmente sommerso dalla sua batteria, con la quale sorregge le intelaiature più sofisticate del nuovo suono della Joe Jackson Band: “E’ un grande gruppo” ci ha detto Jackson, “con loro lavoro benissimo e le loro idee sono sempre stimolanti. Poi lo si vede da un concerto dal vivo se un gruppo funziona o meno e mi sembra che su questa band ci sia poco da obiettare”.
Dal vivo.
Ed è vero e i due concerti italiani lo hanno ampiamente confermato, presentando la Joe Jackson Band come uno dei migliori act che si possa vedere. Dal vivo il gruppo marcia compatto, Jackson salta e balla a più non posso, prende a schiaffi il microfono e gli altri musicisti, canta con tutta la voce che ha in gola seguito all’unisono dal pubblico più fedele, mentre il gruppo si lascia andare sull’onda di una ritmica incessante e piena.
Dal vivo c’è più rock e meno reggae, c’è la voglia di essere capito e seguito subito, senza far compromessi: “Mi sta bene che la gente venga ai miei concerti perchè gli piace la mia musica ma non ha mai sentito i miei testi, come quella che è interessata a quel che dico più che a quello che suono, quel che conta è che io cerco di incoraggiare la gente a pensare con la propria testa e non a far le pecore dietro agli altri”.
Il ragazzotto con la fronte alta ha ancora spazio per molte idee enon sembra destinato a cedere in fretta. Noi lo immaginiamo volentieri sempre intento a cucinar manicaretti musicali facili e furbi, anche fra qualche anno, con la sicurezza e la spavalderia di adesso, magari con qualche chilo di più, ma senza dubbio con la stessa energia. Forse Joe Jackson non diventerà un istituzione ma molti lo ricorderanno volentieri.
Ernesto Assante
Recensione estratta da “PRISMA”– Mensile di Riflessi Sonori – Febbraio 1981 – Numero 1
PRISMA e’ una rivista mensile di Musica edita da Carlo Marignoli nel triennio ’81-’83 dove hanno partecipato alla realizzazione importanti firme della critica musicale.