TESTE di SERIE. TALKING HEADS. DAVID BYRNE

David Byrne

DAVID BYRNE – Catherine Wheel

Non è una novità per nessuno che i più importanti sviluppi della musica pop si siano avuti proprio quando questa (ma esiste poi la possibilità di concettualizzare univocamente il rock?) si è di volta in volta confrontata (dando poi origine ad interazioni, combinazioni, contaminazioni) con altre possibilità espressive. Abbiamo avuto il rock-blues, il folk-rock, il jazz-rock, si è parlato, spesso a sproposito di musica totale.

Abbiamo potuto assistere a tutta una serie di tentativi più o meno riusciti e con scopi a volte molto diversi tra loro.

Da quelli ambiziosissimi di abbattere le barrier formali, rendendo cosi aleatorie le classificazioni dei vari generi, a quelli più pratici, più terreni, di poter vendere un prodotto ad un pubblico quanto più possibile indifferenziato.

Nel giro di pochi anni l’intuizione artistica iniziale è diventata mera forma, scuola nel senso deteriore del termine.

Nel 1977 si è deciso di fare tabula rasa, di ricominciare tutto da capo, come se non fosse successo niente. Oggi la musica rock sta ripercorrendo lo stesso ciclo, anche se gli obiettivi sono diversi.

 

Il David Byrne camaleontico.

L’interesse per la musica funky e tutta quella di derivazione africana in generale, è paragonabile in tutto e per tutto a quello per il blues nella swingin’ London degli anni sessanta. Ma il segno della contaminazione è diverso. Allora si cercava di rendere appetibile (come accadrà negli anni successivi per il jazz e la musica classica) una forma musicale a suo modo istituzionalizzata. Oggi si cerca di intellettualizzare una forma di comunicazione dagli spiccati caratteri primitivistici, nata per il ballo e il divertimento, una forma di comunicazione fondamentalmente rivolta al corpo più che alla mente e al raziocinio.

Cosi dopo il felicissimo divertissment del Tom Tom Club di Chris Frantz e Tina Weymouth e la personalissima interiorizzazione della “C. W.” di David Byrne, anche Jerry Harrison, conscio della sua importanza di Talking Heads decide di farci conoscere il suo personale punto di vista sull’affaire Funk.

C. W.: il dizionario ci informa puntualmente che Caterina non possiede alcuna ruota, e che in quel di New York non è ancora uso corrente chiamare con nomi propri oggetti inanimati, pur se mobilissimi. In architettura la C. W. non è altri che il rosone (finestra ornamentale rotonda con diramazioni radianti) mentre nel linguaggio ordinario sta ad indicare la girandola(quella pirotecnica).

 

Il 22 Settembre 1981, al Winter Garden Theatre.

(N.Y.C. naturalmente) la coreografa Twyla Tharp ha ampiamente dimostrato come le figure architettoniche non siano sempre e necessariamente statiche. Un complicatissimo ( quasi leonardesco) sistema di carrucole ha fatto muovere delle ruote a raggera sospese in aria, realizzando di fatto una doppia trasgressione. Nel senso che T. Tharp ha cosi dimostrato come si possa muovere l’inamovibile e come il movimento possa essere fine a se stesso e dunque statico.

A chi altri affidare la musica di questo spettacolo se non a David Byrne, l’uomo che in pochi anni (insieme a Brian Eno) ha dimostrato come in musica l’unica via di espressione oggi possibile sia quella delle “opposizioni equipollenti”, l’uomo che ha mostrato come si possa passare la vita in un cespuglio di fantasmi, l’unico in grado di risplendere nella divergenza.

Rimane certo difficile intuire quanto l’occasione della utilizzazione teatrale (per un balletto) abbia influito sulle composizioni di Byrne. Sicuramente siamo ben distanti dal Funky spigoloso e aggressivo della prima facciata di “Remain in Light” come pure dall’intellettualismo a volte eccessivo di “My Life in the Bush of Ghosts”. “Catherine Wheel” si pone come punto di mediazione e congiunzione delle due fondamentali precedenti esperienze.

 

David Byrne ed il suono.

Il suono è nella maggior parte dei brani calibrato, quasi ipnotico, circolare, a brani cantati si alternano episodi strumentali, ed il tutto appare estremamente omogeneo.

“Catherine Wheel” fa apparire “Remain in Light” e “My life…” come degli enormi serbatoi di idee, ancora tutte da utilizzare e da esplorare.

Nuovi nomi e nuove soluzioni strumentali confluiscono in questo lavoro, allargando ancor più il campo di azione e di influenza delle teste parlanti (e di Brian Eno naturalmente).

Adrian Belew si esibisce alla Steel drum guitar e alle Floating guitars, Byrne si cimenta all’OBX e al Primetime, alle Fierce and High guitars e finisce per suonare una batteria (da cucina) in “Cloud Chamber”. Eno dà prova della sua abilità nel prophet scream e suonando comunissimi vibrafoni e chitarre-basso.

Yogi Horton è costretto a suonare una normalissima batteria, come pure John Cooksey.

John Cernhoff invece, con mossa abilissima riesce ad impossessarsi di un Gung Gong e addirittura di una Gallopping guitar con la quale guida i suoi compari verso vette altissime in “Big Business”.

 

N.B. La durata complessiva dello spettacolo era di 73 minuti. Sul disco dunque manca una buona mezz’ora di Musica. Ma acquistando un’apposita cassetta…

 

A cura di Massimo Feliziani

 

Recensione estratta da “PRISMA” – Mensile di Riflessi Sonori – Numero 9.

PRISMA  e’ una rivista mensile di Musica edita da Carlo Marignoli nel triennio ’81-’83 dove hanno partecipato alla realizzazione importanti firme della critica musicale.